Buon viaggio, Ezio: il tuo cuore stuprato resterà sempre con noi

Più o meno un quarto di secolo fa, in quelle notti descritte senza fantasia come buie e tempestose, ci trovammo in un’osteria della bassa friulana. Era da tempo che cercavo di incontrarlo. Non mi dette appuntamento al cimitero di Casarsa, davanti alla tomba di Pasolini («Il mio compaesano più vivo», come specificò a Gianni Mura al loro primo incontro), ma più prosaicamente davanti a un tavolo tra San Daniele, frico e sicuramente un ottimo rosso della zona. Curioso che se ne sia andato anche lui pochi giorni dopo il grande giornalista, diventato praticamente subito suo grande amico, perché Vendrame aveva questi immediati slanci per chi gli andava a genio: capitava spesso che parlando con Mura si finisse a tirare in ballo Ezio; e viceversa.

Lo trovai già seduto che mi aspettava. Era già notte, pioveva a dirotto, ma lui sembrava, come quasi sempre, appena alzato dal letto, con quel suo aspetto anarchico, come d’altronde lo era tutta la sua vita, dove il calcio, che lo aveva reso famoso, perché era di talento purissimo che lui si divertiva a dissacrare continuamente, era quasi un accidente, un passatempo per prendere il volo, non per sottostare a schemi, a regole, a vittorie e sconfitte, perché nella vita si finisce col perdere quasi sempre, e lui lo sapeva, lo aveva sempre saputo, mica come quei suoi compagni che si beavano nella gloria.

«Se Sacchi scopasse di più, avremmo un calcio migliore e lui sicuramente si divertirebbe al meglio»: lo disse così all’improvviso e il prosciutto quasi mi soffocò. Lo disse mentre si discuteva su come il calcio era cambiato: dagli olandesi, che pure secondo lui si vedeva che si divertivano e in fin dei conti perdevano sempre le partite decisive; a Righetto come lo chiamava ironicamente Gianni Brera, all’epoca ct della Nazionale dopo i trionfi col Milan, ossessionato dal rigore tattico e dalle geometrie, un assatanato, così diceva, che spremeva tutte le sue energie col pallone, probabilmente anche in sogno.

Lui odiava quel calcio, dove si correva per dovere, per mestiere, mentre lui aveva bisogno di prendere un pallone e farne una speranza, uno sberleffo, una follia, come quando, in una partita probabilmente taroccata per il pareggio, gettò nel panico compagni e tifosi, mettendosi a scartare tutta la sua squadra, portiere compreso, fermandosi sulla riga di porta, a un passo dal più irriverente, scostumato autogol: volete la poesia del calcio? Eccola. Quanti aneddoti che vanno e vengono, in questo giorno triste, nei racconti di chi lo ha conosciuto e gli ha voluto bene.

Sembrava uscito da un film della Nouvelle Vague, con quel dissipare ostinato la vita, l’amore, il sesso, le donne, perché dentro c’era già tutto il dolore del sapersi inadeguato al mondo, di coglierne solo a tratti l’essenza spesso difficile da afferrare, come quelle parole sparse nei suoi versi di poeta, in quei libri consegnati agli occhi del mondo, con quella ermetica metrica ungarettiana, quella lacerazione dell’essere, quell’esistenzialismo che scorticava i pensieri e la pelle: un po’ Camus, un po’ Corazzini, disperazione e disordine.

Apparteneva alla genia dei fuoriclasse folli, certo Best, Meroni, Kempes, Maradona, l’amico Zigoni, tutte teste calde e piedi geniali, con quelle serate che magari  terminavano cantando il cantautorato del mondo, per finire sempre a Piero Ciampi, che per lui era il numero uno, perché lo sentiva come un fratello, uno specchio in cui guardare anche sé stesso, l’amico da salutare anche allo stadio, magari uscendo un attimo dal campo, durante la partita, perché la vita non si può recintare: volete i gol? Ve li faccio anche da calcio d’angolo, ma lasciatemi salutare gli amici che sono venuti fin qui.

Ci vorrebbe un libro per ricordare gli incontri da quella sera, per contenere un’esistenza agitata e febbrile, quel suo “farabutto esistere”, quei “falò accesi ai margini del cuore”, quel suo sconfinato amore per le cose, per la vita, anche quando lasciati gli stadi e le folle, si è rimesso in gioco, insegnando ai ragazzini che il calcio è bello se ci si tuffa dentro con l’anima e non con il 4-4-2, salvo scoprire poi che i genitori andavano a lamentarsi con i dirigenti della società per via di quell’allenatore, bravo per carità ma troppo strambo, che spiegava la gioia della masturbazione, perché il sesso è una delle poche cose che aiutano forse a vivere, ed è meglio impararlo presto; e chi se ne frega degli schemi. «Vorrei allenare una squadra di orfani», disse una volta. E vedendo il calcio giovanile oggi, difficile dargli torto. Gli piaceva poco il mondo che lo circondava: se devo parlare con degli imbecilli, preferisco il silenzio e la solitudine. Anche qui come dargli torto.

Poco tempo fa con Alberto Fasulo, il regista di “Tir” e  “Menocchio”, si era detto di chiamarlo e di ritrovarci, visto che da un po’ non ci si sentiva. Una sera tra chiacchiere e vita, come con pochi come lui si poteva fare. Un tumore maledetto lo ha portato via in fretta. Se n’è andato quando è difficile perfino fare un funerale, lui che i funerali li odiava. Se volete chiamatelo ribelle, ma forse lui non si sentiva nemmeno tale. Aveva capito che per afferrare la vita, bisognava perdere ogni possibile ormeggio: “Con me la morte si dovrà accontentare”. Buon viaggio, Ezio: il tuo “cuore stuprato” resterà con noi. Come dicevi tu: ci si stanca anche a morire.