Torna il calcio e non sembra la tattica giusta. L’unica vittoria che conta è quando riusciremo a mettere il Covid in fuorigioco

Mancando da tempo nelle quotidiane, accese discussioni, dibattiti intramontabili, contrapposizioni verbali, battaglie veementi e solo talvolta sereni e illuminati confronti, specie sulla sponda arbitrale, che abbiamo vissuto in questi tre mesi drammatici, il mondo del calcio è pronto a riprendersi non solo il palcoscenico, ma anche la statura di band leader tra gli argomenti fondamentali dell’esistenza, togliendoci dall’obbligo di occuparci soprattutto di Conte sì/Conte no e ovviamente Covid e dintorni, che già di per sé hanno comunque scatenato guerra per bande, politiche e scientifiche, con il risultato di confondere sempre più la situazione e la gente.

Domani sera dunque torna il calcio. E non sembra la tattica giusta, anche se si torna a contare i gol e non solo i morti, come abbiamo fatto purtroppo negli ultimi mesi. Ma la vera vittoria sarebbe quella di mettere in fuorigioco il Covid, impresa tutt’altro che semplice. Torna il calcio e però, se c’è un richiamo alla vera normalità, forse questo è il più indicativo. Nello spettrale silenzio di stadi, edifici che senza pubblico saranno perlopiù tetre cattedrali abbandonate, il pallone tornerà a correre tra le gambe di squadre che dovranno accettare come l’agonismo stenterà a essere conservato in queste condizioni: abbiamo visto con quale mestizia la Bundesliga abbia ripreso a rappresentarsi in partite, dove la paura di contatti ha ridotto lo spettacolo a quasi accademica esibizione. D’altronde sarebbe stato più opportuno cedere a ogni lusinga e fare come la Francia: chiudere tutto e accettare la stagione zoppa, anche se come si è già visto, proprio Oltralpe, molti club non intendono rispettare questa decisione drastica.

In Italia ovviamente è stato il consueto campionario di scelleratezze varie, di proposte sempre dettate dal proprio tornaconto (chi glielo faceva accettare a Lotito di sospendere tutto e dire addio al suo unico, possibile scudetto dopo 20 anni?), un vagare affranto dentro al consueto marasma di polemiche, ben sapendo che adesso tutto quello che si (ri)comincia ha serie probabilità di non essere nemmeno portato a termine, con una questione sanitaria sempre allertata e classifiche date in pasto a un improbabile algoritmo, sul quale già da ora si promettono strascichi incontrollabili.

D’altronde con buona pace di chi si stupisce e s’infervora perché sembra che la ripresa del calcio sia più importante di mille altri problemi che questo Paese ha, andrebbe ricordato come, tra le tante contraddizioni di questa Italia, l’attesa per il calcio non sembra nemmeno la più inaccettabile e non solo per la portata economica che comporta. Non ci si può dimenticare all’improvviso come da noi infatti ci si indigni di più per un rigore che non per la sfacciata predisposizione all’evasione fiscale o per la detestabile incompetenza politica dei nostri regnanti, quasi sempre accettata con disinvoltura dalle masse, che poi rivotano gli stessi furfanti (vedrete in Lombardia come finirà…), come se nel nostro Paese tutto accadesse sempre per caso o fatalità, come se qualcuno potesse pensare, ingenuamente, che i bambini li porti Gesù: ah no, a questo qualcuno sembra crederci sul serio. Ora manca solo Babbo Natale: cosa non si dice per prendere dei voti.

Dunque si riparte dalla Coppa Italia, da Juve-Milan e vediamo quanto dura la serenità, dalle decisioni arbitrali alla sanità fisica dei giocatori. La voglia di mettersi davanti alla tivù è comunque vicina allo zero, almeno per quanto mi riguarda. Ma non posso essere certo che resti tale, dopo le prime partite. Anche noi non possiamo dimenticarci chi siamo.

E allora come direbbe Enzo Jannacci, vediamo di nascosto l’effetto che fa. E come direbbe una certa Rossella: domani è un altro giorno. Ah no: forse questo, adesso, non si può più dire.