Gaffe, litigi e baci: il tempo interminabile di Sanremo è finito. Vince per fortuna Diodato, ma Ullalà: Achille Lauro, the best

Non si era mai visto, in 70 anni, Sanremo proclamare il suo vincitore alle 2.30 della notte, men che meno parecchio tempo dopo l’annuncio avvenuto su altre testate televisive, che poi si sono scusate, dando costantemente la sensazione di un’edizione in continuo stato di agitazione e confusione, ebbra di litigi e baci (con tutte le contraddizioni ipocrite possibili), travolta dalla sua stessa mania di grandezza, dal bisogno quasi arrogante di voler stabilire una tortura della visione, con serate oscillanti sulle 6 ore complessive, senza contare “L’altro festival”, che non si sa mai che qualcuno non volesse andare ancora a dormire, mentre perfino la platea manifestava un disappunto rumoreggiante per l’alba incipiente. Grazie al cielo almeno ha vinto Diodato, che se lo meritava per la stragrande maggioranza degli spettatori competenti (la sua “Fai rumore” ha vinto anche il “Mia Martini” e il “Lucio Dalla”), altrimenti saremmo qui a festeggiare la vittoria bis di Gabbani, con la sua ennesima canzone ruffiana, al pari dei Pinguini, dal brano altrettanto paraculo, finiti anch’essi sul podio: un doppio Gabbani non sarebbe stato facilmente digeribile, ricordando un po’ quello che successe al festival di Cannes, dove in pochi anni un regista inapprezzabile come Bille August si portò a casa due incredibili Palme d’oro.

È stato il festival del non-presentatore, nel senso che il vero presentatore è stato un altro (ed è stata perfino una fortuna, perché lo stentoreo Amadeus ha confermato la sua insipida presenza: e senza Fiorello, invadente ma essenziale a tenere alta l’attenzione, le 6 ore sarebbe state davvero una tortura); il festival della smargiassata insistenza di Rai 1 a voler dimostrare i propri muscoli, più di ogni altro anno precedente, in forma quasi obbligatoria, per poter sbandierare share da record (e te credo, a quell’ora i pochi spettatori superstiti alzavano ovviamente la percentuale, essendo il resto dell’Italia quasi tutta a letto, un trucco efficace); il festival della pubblicità, degli sponsor (ah, la Nutella è un palco…) e dei troppi ospiti inutili; il festival della propaganda (dal film di Muccino, in uscita giovedì, fino allo spot per “L’amica geniale”, vero tormentone dell’anno: c’è ancora qualcuno che non sa che domani inizia la seconda stagione?); il festival dei monologhi eterni; e ovviamente il festival delle gaffe, delle riparazioni peggio dell’errore, dei litigi sui social e sul palcoscenico, degli abbandoni teatrali, dell’ipocrisia (specie sulle donne, poi trattate sulla scena come eterno abbellimento, in sontuosi vestiti e sempre un “passo indietro”), dei casti baci riparatori e di quelli finalmente liberatori. Perché se c’è davvero uno che ha fatto spettacolo, incantato, che non ha esitato a mettere in gioco se stesso e prendere in giro il mondo che lo circonda, che ha vissuto davvero sul travestimento come arte dell’altro da sé (non certo Fiorello/De Filippi, con tanto di scuse alla mamma…), che in una parola se ne è fregato sul serio di tutto, con un’inventiva fluviale (dagli abiti ai personaggi rappresentati), è chiaro che il vero vincitore è lui: Achille Lauro. Ullalà.

Specchio del Paese come sempre, Sanremo ha mostrato come le convivenze forzate, le permalosità e le arroganze delle primedonne, ricordando in questo la tipologia dei governi degli ultimi tempi, siano un maldestro tentativo di fare spettacolo dove ognuno va per la sua strada e i risultati sono spesso sconfortanti, toccando punte di dilettantismo sconcertante, come le premiazioni finali, dove nessuno sapeva cosa fare e dove andare, calcolando anche la stanchezza e lo sfinimento.

La ressa è finita: Diodato. Domani gran parte di tutto questo sarà dimenticato.