Le parole sono importanti. Basterebbe saperle usare e soprattutto capire. E poi c’è il calcio, al solito imbattibile

Le parole sono importanti. Certo poi bisognerebbe saperle usare e soprattutto capire. E nell’era in cui la comunicazione domina ogni atto della nostra quotidianità è un altro di quei paradossi che contaminano la nostra esistenza: più cose sappiamo, più persone possono esprimersi e meno probabilmente capiamo. Come sempre grande è la confusione sotto i cieli.

È bastato che Zaia parlasse di lockdown soft e di possibili grigliate, non più di 200 metri ma di prossimità (ma che vuol dire? come si misura?) e di corsette nuovamente disponibili, per vedere la popolazione sbracciarsi in un giubilo quasi dissennato, credendosi di fatto già entrata nell’ormai acclamatissima fase 2, almeno in Veneto, mostrando per le strade un controllo meno rigido di sé stessi. Certo è comprensibile aiutare le persone a ritrovare un minimo di fiducia e di speranza nel futuro prossimo, ma bisognerebbe andare comunque cauti, usando le parole prudentemente, perché tutti si fermano spesso ai titoli, nessuno si mette certo a leggere tutti i papironi che ogni governatore sforna ogni giorno e soprattutto non è sempre ovvio che una volta letto il papirone, questo venga compreso. A leggere bene il testo, non solo alla voce grigliate, che sembrano il passatempo più ricercato, si comprende come pochissimo sia cambiato e comunque con nuove regole (mascherine e guanti ad ogni uscita, anche per portare le immondizie a dieci metri da casa) tutt’altro che permissive. Ma a Zaia tutto serve per far vedere l’efficienza del Veneto (in realtà, una volta tanto, è indubbiamente vero, specie se rapportato ad altre regioni trainanti del Nord) e ai cittadini per avere quanto meno frainteso una possibile apertura, umanamente agognata.

Già ci pensano i giornali (soprattutto nei loro siti) a lanciare terrore e, meno frequentemente, speranza, non tanto con articoli anche utili, ma con titolazioni a effetto, che spingono il lettore al clic desiderato, perché cosa non si fa per un clic: e quindi giù titoli spaventosi, con dettagli sintomatici della volontà di destabilizzare il già precario equilibrio di tutti; per non parlare della televisione, che macina ore e ore, giorni e giorni di instancabili dibattiti, quando non lancia servizi come quello dell’inseguimento in diretta di un trasgressore spiaggiaiolo solitario, con tanto di elicottero in volo (Canale 5): Barbara d’Urso, ça va sans dire, replicato poi da “Agorà” (Rai 3), qui addirittura con tanto di wagneriana cavalcata come colonna sonora, perché mai essere secondi a nessuno.

E poi c’è il calcio, come sempre faro insostituibile di ogni sprezzante senso della realtà. A discutere se terminare questi benedetti campionati si finisce ogni giorno col litigare, ben sapendo che in questo scenario ancora tellurico, con la malattia che non se ne vuole certo andare in fretta, scendere in campo in uno sport di contatto è una scelta discretamente suicida. Ma, a seconda della posizione in classifica, ecco che ogni squadra cerca di far prevalere la scelta che più la privilegia: del coronavirus frega niente a nessuno, basta non retrocedere o vincere un benedetto campionato con un’occasione che ti capita ogni ventina d’anni. Ma le parole andrebbero usate sempre con attenzione: ecco quindi che Gianni Rezza, direttore del dipartimento malattie infettive dell’Istituto superiore di Sanità, sapientemente spiega al mondo del calcio come sia una follia ripartire, men che meno a maggio, lasciandosi poi scappare una frase assolutamente gratuita e fuori luogo da romanista, ben sapendo che in corsa per il titolo c’è la Lazio, che per bocca di Arturo Diaconale, portavoce della società di Lotito, ha reagito sdegnatamente. Rezza ha ammesso il misfatto, sostenendo di aver ceduto a una battuta ironica per sdrammatizzare, dimentico come il mondo nel calcio sia totalmente sprovvisto di senso di umorismo.

Ma nemmeno chi è solitamente bravo con le parole sempre esce in piedi. Nell’improvvisa e imprevista discordia Conte-Mentana (che di fatto ha rubato la scena per qualche istante a quella Conte-Salvini&Meloni), il giornalista del migliore telegiornale televisivo sulle reti nazionale (questo va pur sempre ricordato), si è lanciato nel pistolotto a sua difesa, inneggiando a una deontologia ferrea. Tuttavia la sua battuta sull’oscuramento possibile della frase incriminata subito dopo la conferenza del presidente del Consiglio resta infelice: ha ragione nello stigmatizzare l’uscita “personale” del premier, ma scegliere, se possibile, di non divulgarla, resta una inaccettabile censura. E tentare successivamente di motivarla non ha giovato. Perché le parole sono importanti. E non serve ricordare Nanni Moretti.