Da Berlino a Berlino, un anno vissuto pericolosamente: è solo ieri, ma sembra un’eternità

Un anno fa eravamo appena arrivati a Berlino, per il festival. Ricordo che ancora prima di partire c’era un po’ di allarme, un’incertezza strana che aveva portato qualcuno anche a pensare di annullare la presenza. La situazione comunque sembrava apparentemente sotto controllo. E invece appena arrivati lassù, sembrò tutto precipitare. Ricordo che la prima sera, di solito spesa tra un film e l’altro (quello pomeridiano e l’anticipata del giorno dopo alle 21.30), come spesso accade ai tavoli del Maredo, un ristorante che forse eviteremmo in tempi non festivalieri, si cominciava a discutere: preoccupazioni, timori. Più che altro sulla sorte dei festival futuri: ma si farà Cannes?, già si domandava, in verità abbastanza convinti che la domanda fosse esagerata. Semmai, il giorno dopo, fu la notizia del primo morto in Italia e dell’assalto ai supermercati, devastati e svuotati da una folla in preda al panico, che alzò il livello dell’ansia. Rientrare subito o aspettare?: la domanda era già un’altra.

Dall’Italia arrivavano richieste, dai nostri compagni/e, di ritornare a casa, perché la situazione sembrava precipitare e il rischio era di restare bloccati, per la chiusura delle frontiere. Covid era una parola ancora sconosciuta. Dentro il festival il clima era ancora respirabile, ma già fuori, nei bar, nei ristoranti, nei mezzi pubblici, ci si accorgeva di una situazione sempre più tesa. Il fatto di venire dall’Italia, il Paese imprevedibilmente più colpito di altri, ci esponeva a sguardi preoccupati. In metro e negli autobus qualcuno si allontanava, se capiva che eravamo italiani. Appestati. Come poi tutti i popoli sono invece diventati.

A metà festival, non si vedeva l’ora che finisse, anche se la percezione del rischio che si correva era ancora labile. In realtà, immersi nella folla del festival, a distanziamento zero, senza mascherina, disponibili a dialogare con colleghi e amici a tutta voce sui film, abbiamo tutti corso un pericolo enorme. Ma nessuno in quel momento se ne rendeva conto, nessuno avrebbe mai pensato a quale anno saremmo andati incontro. Si azzardava qualche mese, poi Cannes ci avrebbe accolto con il suo consueto frastuono, disturbo, casino, entusiasmo. Niente di tutto questo. A un anno di distanza, escluso Venezia che gode di una location ampia come nessuno, che ha trasformato la sua “solitudine” in un insperato bonus, che si avvantaggia di un calendario fortunatissimo (la fine dell’estate, quando i contagi sono molto bassi) e la cui Mostra ha funzionato comunque grazie alla bravura e al comportamento di tutti, a un anno di distanza dicevo abbiamo perso moltissimo, vite umane in numero insostenibile soprattutto. E in più: gli altri festival (Berlino ora online, Cannes ancora chissà: luglio, ottobre, un altro forfeit?), il cinema inteso come sala (inesorabilmente chiuse), perfino per l’egocentrismo di qualcuno un Governo che, con tutti i suoi limiti, in qualche modo aveva retto l’urto, anche meglio di altri Paesi; e ancora: incontrarsi con gli amici, andare a mangiare fuori, prendere un aereo, un treno, fare delle vacanze rilassanti, viaggiare, affrontare i negazionisti.

Seduti quella sera al Maredo, una delle tappe obbligatorie nei dintorni del Palast per rifocillarsi in fretta (e malino, come tutti i posti turistici), non sapevamo che le nostre vite sarebbero state travolte. Un anno fa. Sembra un’eternità.