Camionette come carri funebri: nemmeno la morte riesce a trovare pietà e conforto

C’è un’immagine da ieri sera che non ci lascerà più per molto tempo. E forse per sempre. La sfilata di camionette dell’esercito che accompagnano le bare dei troppi morti in un’altra città per la cremazione, perché non solo gli ospedali sono traboccanti di ammalati, spesso a un passo dalla morte, ma anche si fa fatica a trovare un posto per i cadaveri e perfino a cremarli, lontani dai loro cari, da ogni parvenza di umana pietà: si muore da soli, come sappiamo da sempre. Ma adesso si muore anche obbligatoriamente abbandonati, perché la crudeltà di questa maledizione virale è totale, toglie anche l’ultimo soffio di affettuosa vicinanza, di conforto estremo.

C’è un’immagine da ieri sera che entra nella testa e non ne uscirà forse più. È un’immagine che solitamente assoggettiamo alle sfilate pompose degli Stati che mostrano i muscoli delle loro forze armate o peggio ai colpi di Stato, quando per le strade sfilano i mezzi blindati per scacciare le ultime resistenze di democrazia. Qui sostituiscono i carri funebri: e lo spavento non è minore. Questo coronavirus ha dichiarato una guerra e il numero impressionante di morti non ammette dubbi.

Non capiamo, perché molti non lo avvertono sul serio, come questa luttuosa quotidianità rischi di accompagnarci purtroppo a lungo. Non capiamo come le “aperture” ammesse e possibili nel quadro di una insolente clausura, certo sfiancante, ma anche necessaria, debbano essere usate con parsimonia, con attenzione e con riguardo. Per noi stessi. E per gli altri. Invece diventano, come spesso accade in Italia, teatro di furberie, occasioni per svincolare i divieti. E così andiamo a fare la spesa più volte in una giornata, una corsetta salutare diventa l’occasione per spacciarci tutti maratoneti in allenamento e altre amenità, senza capire che “rubando” minuti all’isolamento, rischiamo di prolungarlo sine die, lontano nel tempo come nemmeno forse riusciamo ora a immaginarlo. Certo c’è il bisogno di rompere questa ansia, questa libertà condizionatissima, e molti, tra l’altro, non hanno uno spazio casalingo confortevole per una convivenza così forzata: è tutto molto umano, come gli appuntamenti canori sul terrazzo, che sono una sorta di desiderio di collettività, ma che forse risultano inopportuni a chi, invece, vede sfilare sotto casa soltanto processioni di ambulanze e bare. Perché questo accade nelle zone più colpite.

E poi forse è il caso di parlare e soprattutto sentenziare meno. E questo vale anche per gli esperti, figuriamoci per chi scambia facebook come il proprio terreno di laurea. Siamo invasi ogni istante da spiegazioni più o meno scientifiche, anche in contrapposizione tra di loro, ipotesi temporali sulla durata della pandemia, puntuali annotazioni di stampo complottistico, spesso tutto movimentato dall’inevitabile ideologia: la rassegna stampa è eloquente, anche in queste circostanze. Siamo già governati a livello mondiale da personaggi assurdi, spesso da cabaret. Potrebbe bastare. Viviamo tempi drammatici, inaspettati, che forse cambieranno per sempre il modo di intendere la quotidianità. Non capendo che oggi urge soltanto una esigenza fondamentale: sopravvivere.